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dott.ssa Francesca Vaccariello
“Rinuncia al credito e remissione del debito”
Relatore: Ch.mo Prof. Biagio Grasso
La questione relativa alla rinunzia ai diritti in genere è stata oggetto, negli ultimi anni, di considerevole attenzione da parte degli studiosi.
Tuttavia, la dottrina rimane in disaccordo su alcune problematiche, soprattutto circa la precisa e puntuale relazione tra la rinunzia al credito e la remissione del debito. Alle due fattispecie è assegnata, da taluni, una completa identità od equivalenza: la remissione del debito è rinunzia al credito, anzi è « l’unico schema rinunciativo in materia di diritti di credito »
. Altri, invece, affermano che, oltre a rimettere il debito, il creditore possa anche rinunziare al credito
, lasciando intendere che la remissione del debito sia qualcosa di diverso ( da stabilire se un plus o un minus ) della semplice rinunzia al credito.
Il codice civile non presenta una norma di carattere generale sulla rinunzia, ma numerose sono le disposizioni che vi fanno riferimento: se ne parla con riguardo all’eredità e al legato (artt. 478, 519 ss., 649, 650 c.c.), a prescrizioni di forma e pubblicità (artt. 1350 e 2643 c.c.); si annovera tra le cause di estinzione dei diritti reali di godimento, in particolare con riferimento all’enfiteusi (art. 963 c.c.) e alla servitù (art. 1070 c.c.), nonché in materia di garanzie dell’obbligazione (art. 1238, 1240 c.c.), di prescrizione e decadenza (art. 2937, 2968 c.c.), di ipoteca (art. 2878, 2879 c.c.), di contratto di mandato (art. 1722, 1727 c.c.), e di rapporto di lavoro (art. 2113 c.c. come novellato dall’art. 6 l. 11 agosto 1973, n. 533). Tuttavia, la tendenza ad individuare una nozione di rinunzia al credito, funzionalmente e strutturalmente distinta dalla remissione, è espressione ed integrazione della volontà manifestata dal legislatore al II comma dell’art. 1322 c.c., che prevede la possibilità di concludere contratti non appartenenti ai tipi appositamente disciplinati, sempre che siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
La remissione del debito è, invece, espressamente disciplinata dal codice civile del 42 tra i modi di estinzione dell’obbligazione c.d. non satisfattori, che producono l’estinzione dell’obbligazione senza che il creditore ne esca soddisfatto. Il legislatore ha dedicato ad essa gli artt. 1236-1240 che ricalcano, essenzialmente, la disciplina previgente.
La novità sostanziale è data dalla previsione dell’art. 1236 c.c., secondo la quale « la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore, salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne profittare ».
La remissione è il negozio
unilaterale mediante il quale il creditore rinunzia gratuitamente al suo diritto.
Secondo la prevalente dottrina
, la remissione del debito è un atto giuridico di rinunzia al credito e non c’è differenza tra remissione del debito e rinunzia al credito. Afferma, anzi, che la remissione sia l’unico schema rinunciativo in materia di diritti di credito, per cui la remissione implica necessariamente una rinunzia e rinunziare ad un credito equivale a rimettere un debito. Tra remissione e rinunzia sussiste, pertanto, un rapporto di genus a species: la rinunzia è la categoria di atti che comportano la dismissione di un diritto; la remissione è una rinunzia avente ad oggetto il diritto di credito.
Non manca, tuttavia, un’autorevole dottrina
che distingue le due figure, sostenendo che la remissione del debito è espressamente diretta all’estinzione dell’obbligazione; la rinunzia al credito è, invece, diretta soltanto alla dismissione del diritto di credito.
La dottrina nel definire il rapporto tra remissione e rinunzia ha posto l’accento ora sulla struttura, ora sull’oggetto, ora sulla funzione elevandoli a criterio discretivo. Occorre indagare su questi tre profili al fine di stabilire se remissione del debito e rinunzia al diritto di credito siano o meno diverse forme verbali per esprimere un identico istituto; se vi possa essere concorso tra l’attività remissoria e quella rinunziativa, in modo da individuare a favore del creditore o la facoltà di rimettere il debito e quella di rinunziare al credito, o la sola facoltà di rimettere, o la sola facoltà di rinunziare; se, cioè, i crediti siano remissibili e rinunziabili, solo remissibili o solo rinunziabili; se, infine, sia possibile respingere l’affermazione corrente secondo cui la remissione del debito sarebbe l’unico schema rinunciativo in tema di diritti di credito e ricercare la giustificazione al potere che si riconosce al creditore di rinunziare al proprio diritto, senza che il debitore si possa opporre.
La dottrina è talmente certa che la remissione del debito è la rinunzia al credito da discorrere di « remissione dei diritti di credito »
e più esplicitamente afferma che le espressioni « remissione del debito » e « rinunzia al credito » siano da ritenersi equivalenti.
La remissione è, dunque, il negozio unilaterale che comporta l’estinzione dell’obbligazione e più esattamente l’estinzione del diritto di credito. Dato che, a sua volta, la rinunzia è negozio unilaterale che estingue anch’essa un diritto, la logica conseguenza è che la remissione del debito altro non è che il negozio unilaterale di rinunzia, da parte del creditore, al diritto che vanta nei confronti del debitore. La conclusione è di coerenza inoppugnabile, sempre che le premesse siano veritiere e attendibili.
Alla tesi che distingue i due fenomeni, si può controbattere che la remissione non può non essere un atto di rinunzia: il creditore che rimette il debito rinunzia alla propria pretesa creditoria. Quindi, rinunziare al credito vuol dire rimettere il debito.
STRUTTURA
La corrispondenza tra le figure in esame viene sostenuta sottolineando che si è dinanzi ad atti negoziali a carattere unilaterale. La remissione è atto unilaterale che richiede sempre e soltanto la sola dichiarazione del creditore. È quanto si verifica anche nel caso della rinunzia, si parla allora di ATTI STRUTTURALMENTE IDENTICI. La struttura unilaterale, pertanto, sussiste sempre sia che si voglia vedere l’atto come rinunzia al credito, sia che si voglia vederlo come remissione del debito. In ambedue le circostanze non occorre il consenso altrui poiché esso si riflette direttamente sulla sfera giuridica dell’obbligato cui è permesso di paralizzarne l’effetto a mezzo di un autonomo atto di rifiuto
. ( cioè si supera la tesi che considera la remissione bilaterale per il valore attribuito all’opposizione del debitore, considerando l’atto del debitore come atto autonomo)
È, pertanto, la struttura unilaterale delle due fattispecie a confermare la coincidenza tra rinunzia al credito e remissione del debito.
Dalla constatazione che la rinunzia al credito abbia come destinatario il debitore e che il disposto dell’art. 1334 c.c. subordini l’efficacia degli atti unilaterali al momento in cui vengano a conoscenza della persona cui sono destinati, « consegue il fatto che la rinunzia al credito, per produrre effetto, viene esteriorizzata e diretta al debitore, ed in questo senso si può intendere comunicata e coincidente con la remissione del debito. In realtà, la remissione fa parte di quella categoria generale, più ampia, delle rinunce e configura l’esempio tipico della rinuncia ad un diritto di credito »
.
Tuttavia, sia gli studiosi sia la giurisprudenza hanno sostenuto il carattere pattizio della remissione.
Questo parere è ravvisabile già nei primi commentatori al codice, i quali considerano apparente la struttura unilaterale della remissione contenuta nell’art. 1236 c.c.
La natura contrattuale della remissione è affermata sulla base dell’accettazione, da parte del debitore, dell’intento remissorio esternato dal creditore.
Dalla lettura della prima parte dell’art. 1236 c.c. sembra che l’effetto estintivo consegua dalla semplice dichiarazione del creditore. La norma, però, continua stabilendo che l’estinzione non ha luogo qualora il debitore dichiari, entro un congruo termine, di non volerne profittare. Quindi, la decorrenza del congruo termine fa supporre per legge l’accettazione del debitore. (Si tratta di un’accettazione tacita derivante dal comportamento negativo del destinatario consapevole, rimanendo così nel negozio bilaterale. Si fa derivare l’erroneo corollario della sufficienza della sola volontà del creditore ad estinguere dalla considerazione che la legge non abbia ragione a conservare un’obbligazione contro la volontà del creditore. )
Secondo tale orientamento, dato il carattere bilaterale del negozio, il debitore avrà il dovere e il diritto di estinguere l’obbligazione mediante l’esecuzione della prestazione cui è tenuto, vale a dire mediante il pagamento. Il principio decretato dall’art. 1236 c.c. è che egli non possa essere espropriato di tale diritto neanche dal creditore.
Alla luce di tale impostazione persiste il collegamento tra rinunzia e remissione del debito, pur conferendo a quest’ultima natura di contratto.
PERÓ, non sembra possibile affermare la natura assolutamente bilaterale della remissione, ma allo stesso tempo non si può sottrarre a priori la remissione all’accordo delle parti (cioè non si esclude una derivazione contrattuale della remissione). Va, invece, rifiutata la possibilità di ammettere che la rinunzia possa compiersi tramite contratto, laddove ad essa va attribuita soltanto struttura unilaterale
.
L’interesse del debitore a mantenere in vita l’obbligazione e la necessità del debitore di accettare l’effetto beneficiario che la remissione produce nei suoi confronti, non giustificano la bilateralità della remissione
, anche se tra di essi c’è complementarietà. Ma tale complementarietà non può ispirare la distinzione tra la remissione bilaterale e quella unilaterale.
FUNZIONE
Attestata l’identità di struttura, si fonda la distinzione tra remissione del debito e rinunzia al credito sulla diversità di funzione: funzione estintivo-liberatoria della remissione e funzione dismissivo-abdicativa della rinunzia. La rinunzia ha una funzione propria non coincidente con quella della remissione. È estintiva la funzione remissoria e dismissiva quella rinunciativa.
L’effetto finale può anche essere lo stesso e cioè l’estinzione dell’obbligazione, ma esso ha un ruolo diverso a seconda della fattispecie che si prende in considerazione.
Infatti, il vantaggio patrimoniale (estinzione dell’obbligazione) che consegue il debitore sarà effetto diretto e immediato della remissione del debito, introdotta e considerata dal legislatore quale mezzo di estinzione dell’obbligazione; sarà, invece, effetto riflesso e mediato della rinunzia al credito che realizza l’abdicazione del diritto (come effetto diretto ). In altre parole, l’estinzione del rapporto obbligatorio è effetto negoziale nella remissione ed effetto dell’effetto negoziale (cioè della separazione del diritto dalla sfera del remittente) nella rinunzia.
Mentre la rinunzia è perdita pura e semplice del diritto, è abbandono puro e semplice della titolarità del rapporto e non perdita con vantaggio altrui. Con la remissione, invece, il remittente oltre ad abdicare al diritto, libera anche il debitore dall’obbligazione, arreca cioè beneficio al debitore. La remissione presenta un quid novi rispetto alla rinunzia al credito, ha cioè una funzione più ampia, in quanto non determina solo la dismissione della titolarità di una situazione giuridica soggettiva appartenente al remittente, ma anche e soprattutto l’estinzione del rapporto obbligatorio in cui sono interessati creditore e debitore.
La remissione mira sia all’estinzione della situazione giuridica soggettiva, di cui è titolare il remittente (creditore) sia all’estinzione della situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il remissario (debitore).
Il creditore associa l’estinzione del proprio diritto all’estinzione del debito altrui. Non si tratterà di due effetti indipendenti e contemporanei, ma di un unico effetto che investe contemporaneamente due situazioni giuridiche soggettive, che rappresentano due effetti dello stesso fenomeno. La remissione esplica, in pratica, la sua efficacia in due diverse sfere patrimoniali: estingue sia la situazione creditoria sia quella debitoria.
Va, però, precisato che il carattere liberatorio della remissione non coincide con l’intento liberale (per cui non si può considerare la remissione una donazione). Si può infatti dire che la liberazione è coessenziale allo schema remissorio, ma la liberalità è solo eventuale. Il creditore che voglia liberare il debitore non lo fa obbligatoriamente per arricchirlo o per avvantaggiarlo, di conseguenza la funzione beneficiaria sarà accidentale e non essenziale rispetto alla remissione.
Tuttavia, spesso, si fanno coincidere funzione remissoria e funzione beneficiaria e si definisce la remissione come donazione o donazione indiretta; ma non è coretto definire la remissione quale contratto di donazione liberatoria o donazione indiretta, dato che lo spirito di liberalità proprio del negozio gratuito non si riscontra, necessariamente, nella remissione.
La remissione non equivale, inevitabilmente, all’intento di arricchire o avvantaggiare il debitore, sicché la valutazione della funzione remissoria non può esaurirsi nell’ambito dell’attività beneficiaria
.
La rinunzia, intesa come perdita del diritto, non ha funzione liberatoria: il rinunziante è chi si priva di qualcosa, non chi libera qualcuno.
Di conseguenza, nella remissione l’effetto estintivo o liberatorio sarebbe riconducibile alla convenzione remissoria, vale a dire ad un negozio bilaterale che determinerebbe l’estinzione dell’obbligazione e la liberazione del debitore; mentre, nella rinunzia al credito, la liberazione del debitore discenderebbe dalla legge e non dalla volontà del creditore
.
OGGETTO
Ai tentativi di distinzione tra remissione del debito e rinunzia al credito fondati sulla struttura e sulla funzione, si aggiungono quelli scaturenti dall’oggetto: la rinunzia riguarda anche i diritti reali, i diritti potestativi e i diritti all’eredità
, la remissione, invece, concerne unicamente i diritti di credito.
La diversità dell’oggetto dà luogo a due orientamenti: uno ricalca la diversa qualità dell’oggetto a cui i negozi si riferirebbero; un altro coglie la differente relazione temporale tra il negozio e l’oggetto (la remissione presumerebbe necessariamente l’esistenza del rapporto obbligatorio, mentre la rinunzia toccherebbe anche diritti non ancora nati
).
Il fatto che un negozio si riferisca ad un diritto anziché ad un altro, non costituisce motivazione idonea a qualificare il negozio; infatti, quando si dice che la remissione è tale perché estingue un diritto di credito, non un diritto reale, non se ne definisce la nozione. Anche perchè, c’è chi parla di remissione pure nell’ambito dei diritti reali.
La qualità dell’oggetto delle due figure non è sufficiente ad affermarne e provarne la distinzione.
Il criterio discretivo fondato sull’oggetto, dunque, non è altro che un’osservazione empirica la quale, piuttosto che spiegare un’eventuale distinzione, è bisognevole di delucidazioni.
((La Suprema Corte
ha stabilito che la rinunzia nel nostro ordinamento giuridico, in quanto espressione tipica dell’autonomia negoziale privata, può avere ad oggetto ogni diritto, di carattere sostanziale o processuale, anche futuro ed eventuale, con l’unico limite che non vi osti un preciso divieto di legge o che non si tratti di diritti irrinunciabili od indisponibili. I limiti intrinseci ad ogni manifestazione di volontà implicano, poi, che essa non possa essere giuridicamente efficace se non si attua in relazione ad un oggetto determinato o determinabile. Per la validità della rinunzia ad un diritto futuro è, infatti, necessario che esso abbia contenuto determinato o determinabile.
Ragionando sia sulla previsione dell’art. 1348 in base a cui, eccetto i divieti della legge, la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, sia sul principio secondo cui tutti i diritti di credito sono rinunziabili e tutti i debiti sono remissibili, tranne che si tratti di diritti indisponibili, i debiti futuri vengono considerati quale possibile oggetto della remissione.
L’oggetto della remissione deve essere, ex art. 1346 c.c., possibile lecito, determinato, determinabile.))
CONSEGUENZE PRATICHE DELLA DISTINZIONE TRA RINUNZIA AL CREDITO E REMISSIONE DEL DEBITO
La parte della dottrina che distingue le due figure ritiene che ad un diverso nomen non possa che corrispondere una diversa rerum substantia.
Vediamo le conseguenze di tale distinzione.
Mentre la rinunzia esplica la sua funzione ed i suoi effetti nella sfera del creditore rinunziante, la remissione colpisce la sfera del debitore, per cui non può risolversi nel solo potere di disposizione del creditore. La prima incide sulla titolarità; la seconda sul rapporto. Ne consegue che solo nella rinunzia al credito, non anche nella remissione del debito, la dichiarazione del titolare del diritto completa l’intera vicenda giuridica, non essendo richiesta nessuna attività del debitore. Al contrario, nell’ipotesi di remissione, l’intento del creditore di estinguere il rapporto liberando il debitore, convive, ai sensi dell’art. 1236 c.c., con l’interesse del debitore all’adempimento dell’obbligazione
.
Quindi, la dichiarazione del creditore rinunziante è necessaria e sufficiente per la fattispecie rinunziativa; la dichiarazione del creditore remittente, invece, è necessaria ma non sufficiente per la vicenda remissoria ( in cui rileva anche l’interesse del debitore a mantenere o meno in vita l’obbligazione ).
Con il disposto dell’art. 1236 il legislatore ha voluto mettere in evidenza che l’estinzione del rapporto obbligatorio è evento che interessa, allo stesso modo, sia la posizione giuridica creditoria che quella debitoria e che trova la sua origine nella volontà di entrambe le parti.
La ratio dell’attribuzione al debitore del potere di rifiutare la remissione sta nel fatto che la remissione interessa entrambe le parti, incide cioè sulla posizione giuridica del creditore e del debitore.
Inoltre, nella rinunzia, in quanto mera perdita del diritto incidente soltanto sulla titolarità, l’atto dismessivo-rinunciativo del creditore fa venire meno la sua titolarità sul diritto. Diversamente, nella remissione del debito, incidendo sul rapporto, la dichiarazione remissoria del creditore non causa la perdita della titolarità del diritto né l’estinzione del rapporto fino a quando non sia decorso il congruo termine o non vi sia stato esplicito assenso del debitore. In questo frangente il creditore conserva la sua posizione creditoria.
L’estinzione dell’obbligazione rimessa si verifica, invece, dal momento della dichiarazione del creditore di voler rimettere il debito, sempre che sia decorso il congruo termine richiesto senza che il debitore si sia rifiutato. Durante tale periodo l’obbligazione non si estingue e non si mantiene in vita in tutta la sua rilevanza.
Qualora, però, sia trascorso il congruo termine o il debitore abbia espressamente aderito, l’obbligazione a posteriori si considera estinta al momento della dichiarazione del creditore. (retroattività della dichiarazione del creditore di rimettere il debito)
Allo stesso tempo, si sottolinea che nella remissione del debito, medio tempore, cioè dopo la dichiarazione del creditore al debitore e fino al decorso del termine o all’assenso, l’obbligazione che costituisce oggetto del rapporto è da considerarsi inesigibile, poiché se il creditore ha manifestato un’intenzione remissoria, non può poi pretenderne l’adempimento.
IN CONCLUSIONE
L’interesse del debitore ad opporsi alla remissione, perché titolare di un interesse al mantenimento in vita dell’obbligazione, è il motivo principale dell’orientamento che considera la remissione di cui all’art. 1236 c.c. l’unico schema rinunciativo nel settore dei diritti di credito.
L’estinzione dell’obbligazione non si verifica allo stesso modo, vale a dire con la medesima fattispecie estintiva. Si parla, pertanto, di relatività dei fatti estintivi e, in particolare, della loro struttura, la quale varia a seconda di come sia regolato il rapporto obbligatorio dalla legge o dall’autonomia dei privati. In altre parole, la modalità estintiva dipenderà dalla tipologia del rapporto obbligatorio.
Ciò significa che alcune obbligazioni saranno unilateralmente estinguibili ed altre no. Di conseguenza, l’estinzione convenzionale è ammissibile solo qualora il rapporto obbligatorio da estinguere ne reclami l’impiego.
Abbiamo visto che la funzione estintiva è cosa diversa dalla funzione rinunziativa: quest’ultima è funzione dismissiva del diritto di credito, incompatibile con la funzione remissoria. Ragion per cui avendo funzioni diverse, è legittimo affiancare alla remissione la rinunzia al credito, mediante la quale il creditore mira alla dismissione, ossia alla perdita del proprio diritto, senza che sia necessaria l’estinzione dell’obbligazione.
La differenza tra la rinunzia al credito e la remissione del debito consiste nella differenza tra perdita del diritto ed estinzione dell’obbligazione. Laddove è la perdita vi è anche la possibilità della successione nel diritto, mentre vi è incompatibilità tra estinzione e successione. Ebbene, la rinunzia al diritto di credito non preclude il mantenimento in vita del diritto e la successione; la remissione del debito, al contrario, estingue l’obbligazione e libera il debitore (escludendo la conservazione del diritto e la successione). Ciò vale anche nel caso di rinunzia al credito che realizza l’estinzione, come effetto riflesso.
Come già detto, seppure l’estinzione sia effetto finale di entrambe le fattispecie, solo nella remissione è effetto negoziale che ha luogo in due tempi e che ha come antecedente causale sia la dichiarazione del creditore, sia il non rifiuto, o l’espressa accettazione del debitore. È, invece, effetto eventuale e riflesso nella rinunzia al diritto di credito e ha la sua causa nella perdita del diritto di credito.
In conclusione, si ritiene che la remissione del debito e la rinunzia al credito non costituiscano l’una il doppione dell’altra.
La differenza si fonda non solo e non tanto sulla struttura, dal momento che non può escludersi una derivazione convenzionale della rinunzia, ma anche e soprattutto sulla loro funzione e sulla loro efficacia: l’estinzione dell’obbligazione è effetto diretto della remissione ed effetto eventuale e riflesso della rinunzia. È effetto diretto della rinunzia, invece, l’abdicazione, la dismissione, la perdita, la separazione del diritto dal suo titolare.
L’intento dell’autore dell’atto è già, di per sé, rappresentativo e indicativo della fattispecie che aspira a porre in essere: darà luogo alla remissione colui che voglia estinguere il diritto; alla rinunzia colui che voglia liberarsi del suo diritto e abbandonare il suo status creditoris. Non bisogna assorbire, in una, le due figure, in quanto si farà ricorso all’uno o all’altro strumento a seconda dell’effetto che si voglia conseguire.
Pertanto, potendo l’estinzione derivare anche dalla rinunzia, non si deve volgere lo sguardo al prodotto finale, bensì all’effetto proprio e diretto della fattispecie posta in essere: estinzione dell’obbligazione e perdita del diritto.
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