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dott.ssa Carmela Sabatelli
"L'adempimento come condizione del contratto"
Relatore: Ch.mo Prof. Biagio Grasso
L’obiettivo della ricerca è indirizzato all’analisi dell’istituto dell’adempimento sottoposto a condizione contrattuale, al fine di valutarne l’ammissibilità in termini di compatibilità col nostro ordinamento.
Ecco i termini della questione: l’adempimento quale elemento interno ed intrinseco di un contratto a prestazioni corrispettive può essere oggetto di una condizione che costituisce, invece, un elemento accidentale e per ciò esterno al contratto stesso?
Necessario appare, innanzitutto, precisare i concetti oggetto di indagine: adempimento e condizione.
L’adempimento è l’esatta realizzazione della prestazione dovuta e costituisce il risultato del “comportamento” contrattuale. La mancata esecuzione dell’indicata prestazione determina l’inadempimento di colui che a tale esecuzione è tenuto, facendo insorgere a carico di quest’ultimo una forma di responsabilità contrattuale. È chiaro, dunque, che il legislatore abbia considerato le reciproche prestazioni ed il loro adempimento come elementi essenziali del contratto.
La condizione è, invece, un elemento accidentale del contratto, un avvenimento futuro ed incerto cui le parti possono subordinare la produzione - nel caso della condizione sospensiva - o la risoluzione – nel caso di quella risolutiva - degli effetti contrattuali. È un elemento che agisce esternamente al contratto. Inerisce, infatti, ad un contratto già perfetto e completo in tutti i suoi elementi che potremmo definire genetici, ma ancora inefficace o, comunque, temporaneamente inefficace. Al mancato verificarsi o al verificarsi dell’evento (a seconda che si tratti di condizione sospensiva o risolutiva) conseguono la definitiva efficacia o inefficacia del contratto che, tuttavia, rimane pienamente valido.
Dall’esame di questi concetti discende la loro apparente inconciliabilità. Da una parte, l’adempimento o l’inadempimento della prestazione attiene alla realizzazione del contratto e dall’altra la condizione riguarda, invece, l’efficacia dello stesso; da una parte, ancora, l’ordinamento prevede come risultato dell’inadempienza la risoluzione negoziale, e dall’altra, invece, conseguenza del realizzarsi o meno dell’evento dedotto in condizione è la definitiva efficacia o inefficacia dello stesso. Tuttavia, a ben vedere, l’adempimento è pur sempre un avvenimento futuro ed incerto e, come tale, concettualmente suscettibile di essere dedotto in condizione sia sospensiva che risolutiva.
Nell’elaborato di tesi è stata, innanzitutto, messa in evidenza la difformità di prospettiva, dalla quale evidentemente si pongono, per giudicare la questione in esame, le due principali teorie contrapposte.
La prima nega l’ammissibilità di una clausola condizionale avente ad oggetto l’adempimento o l’inadempimento di una prestazione contrattuale, e pone a fondamento della propria tesi il difetto, in ordine all’esecuzione di prestazione contrattuale, del requisito essenziale dell’adempimento, evento dedotto in condizione. Autorevole dottrina ha infatti affermato che, anche qualora si volesse accogliere la soluzione favorevole all’ammissibilità della condizione di adempimento, si travalicherebbero comunque i limiti entro i quali può operare l’autonomia privata, non potendo le parti disporre di interessi diversi dai propri, alla cui tutela sono preordinate le norme del codice civile, tra le quali l’art. 1453, che prevede la risoluzione del contratto come mezzo “legale” per ottenere il risultato dello scioglimento del contratto per inadempimento.
Dottrina meno risalente, al contrario, ha affermato la possibilità di dedurre in condizione l’adempimento, negando l’assenza dei predetti requisiti e sostenendo la natura “multifunzionale” della condizione, e cioè la possibilità di utilizzare in modo differenziato tale congegno, in ragione della varietà degli interessi perseguiti.
La condizione, come schema predisposto dall’ordinamento, può essere considerata in grado di selezionare gli interessi meritevoli di tutela e tradurli in regola negoziale. Non solo, essa è sì strumento idoneo alla selezione di interessi dei contraenti, ma soprattutto strumento atto a subordinare alla realizzazione di questi ultimi l’efficacia del negozio.
Questo ruolo della condizione risulta determinante e pregiudiziale rispetto all’ammissibilità di una condizione che abbia ad oggetto una prestazione contrattuale, perché dimostra come la parte, se si tratta di una condizione unilaterale, o le parti, se l’interesse è di entrambi i contraenti, possano utilizzare il meccanismo condizionale per tutelare un interesse particolarmente rilevante, rilevante a tal punto da subordinare alla sua realizzazione l’efficacia del contratto stesso.
L’autorevole dottrina che ha però negato l’ammissibilità del congegno in questione ha, peraltro, sostenuto l’illiceità di tale strumento laddove esso si atteggi a condizione unilaterale, apposta cioè nell’interesse di una sola delle parti. Tale tipo di condizione sarebbe qualificabile come illecita in quanto meramente potestativa, poiché la realizzazione dell’evento dipenderebbe dalla volontà del soggetto nel cui unico interesse è apposta la condizione.
A questo assunto si è, però, obiettato che, posto che l’interesse di una delle parti ad ottenere una maggior tutela sul piano pratico è interesse meritevole di tutela per l’ordinamento, la condizione unilaterale di adempimento non può essere considerata come “condizione meramente potestativa”, ma tuttalpiù come “condizione potestativa”, poiché il suo realizzarsi deriva sì dalla volontà di una delle parti, ma quest’ultima non è spinta dal mero arbitrio, bensì da una scelta relativa ad un interesse giuridicamente apprezzabile.
Dopo aver illustrato i temi fondanti entrambe le teorie, si è poi posto l’accento sulle due possibili versioni del congegno in esame, la condizione “sospensiva di adempimento” e quella “risolutiva di inadempimento”, valutando di entrambe la possibilità di riconduzione al sistema.
Per quanto riguarda la prima, sono stati trattati innanzitutto gli argomenti a sostegno della sua inconfigurabilità. La prima questione affrontata è stata quella relativa alla mancanza, affermata da una parte della dottrina, dei requisiti essenziali propri della condizione: incertezza, accidentalità ed estrinsecità.
In ordine al primo requisito è stato agevole chiarire che l’incertezza consiste nella “non sicurezza” della realizzabilità dell’evento. L’equivoco in cui è, però, caduta la dottrina contraria al congegno in esame è stato di confondere la “doverosità dell’esecuzione dell’obbligazione” e la “coercibilità” della stessa con la necessità reale della sua realizzazione. Si è confusa cioè la “necessità ideale” della verificazione dell’evento con la “necessità reale” della realizzabilità dello stesso.
Si è pertanto obiettato, in primo luogo, che la deduzione nel rapporto obbligatorio di una determinata prestazione non implica affatto che vi sia la certezza della sua esecuzione, in quanto non è sicuro che il debitore adempia l’obbligazione: egli, infatti, potrebbe scegliere, consapevolmente, la via dell’inadempimento; in secondo luogo, si è sottolineato che, laddove oggetto della condizione fosse “l’adempimento spontaneo”, la realizzazione coattiva del risultato dovuto non implicherebbe l’avveramento della condizione stessa: l’esecuzione coattiva presupporrebbe, infatti, l’avvenuto inadempimento, e dunque il mancato verificarsi dell’evento dedotto in condizione.
Per quanto riguarda invece il requisito dell’accidentalità, si è dimostrato che in realtà il riferimento all’accidentalità dell’evento dedotto in condizione non ha ragion d’essere, se solo si riflette sul fatto che soltanto in astratto l’accidentalità è un carattere dell’evento dedotto in condizione. Si deve, infatti, considerare che, una volta perfezionato il negozio come “condizionato”, l’elemento che in astratto poteva essere considerato accidentale diventa invece essenziale, poiché è espressione della volontà delle parti, che hanno voluto “quel” negozio condizionato.
Per quanto riguarda l’ultimo requisito, quello dell’estrinsecità, parte della dottrina ha obiettato che l’interesse perseguito con il meccanismo della condizione di adempimento non sarebbe “esterno”, bensì “interno”, coincidendo con l’interesse all’adempimento di una delle prestazioni contrattuali.
In realtà, va invece osservato che la condizione di adempimento, come ogni altra clausola condizionale, è un meccanismo diretto a realizzare finalità estrinseche rispetto a quelle rientranti nella destinazione fondamentale dell’atto: ci si trova pur sempre di fronte ad una regola integrativa che si aggiunge, accidentalmente, al complesso degli elementi essenziali, previsti dalla regola negoziale principale.
La condizione mira a realizzare interessi “esterni” al piano normativamente previsto, a perseguire intenti secondari che diversamente non avrebbero potuto essere realizzati, ed il fatto che l’oggetto della condizione risulti essere anche oggetto dell’obbligazione principale non inficia la funzione propria del congegno condizionale.
L’adempimento della prestazione infatti assume un significato differente a seconda della “posizione contrattuale” in cui si inserisce: esso è, da una parte, oggetto dell’obbligazione principale, e dunque elemento essenziale del contratto, e dall’altra, oggetto dello schema condizionale, e dunque elemento accidentale del contratto.
In seguito l’indagine si è concentrata sulla fattispecie della condizione risolutiva di inadempimento.
La confutazione delle obiezioni sollevate, sul piano dei concetti, contro la possibilità di configurare l’adempimento o l’inadempimento delle prestazioni contrattuali come evento condizionale, implica l’astratta attitudine del fatto “inadempimento” a costituire oggetto di una clausola condizionante, ma nulla dice, viceversa, intorno agli esiti cui la stessa clausola conduce sul piano operativo, e dunque in ordine al grado di compatibilità tra la disciplina della condizione e la logica che ispira il sistema della risoluzione per inadempimento.
L’analisi deve essere trasferita pertanto dal piano della costruzione a quello del concreto funzionamento e deve essere tradotta in un confronto di disciplina tra risoluzione condizionale e risoluzione ordinaria.
Rilievo decisivo, per ricostruire la logica ispiratrice dei rimedi contro l’inattuazione dello scambio, consiste innanzitutto nel cogliere la pluralità di forme di tutela che l’ordinamento a tal fine appresta.
Recente dottrina ha dimostrato che la condizione di inadempimento costituisce la predisposizione di un congegno pattizio a struttura risolutoria, avente finalità recuperatorie. Da questa affermazione la prima conclusione che può trarsi consiste nell’escludere il concorso di quella forma di tutela (prevista come alternativa), rappresentata dall’azione per l’adempimento.
Il ricorso alla condizione di inadempimento preclude dunque al contraente fedele l’attivazione della tutela satisfattoria: e ciò in quanto l’utilizzazione della clausola rappresenta un “esercizio anticipato” di quella scelta che l’art. 1453 c.c., mette comunque a disposizione del creditore deluso dall’inattuazione dello scambio.
Ciò ha consentito di spiegare de plano il primo tra i risultati “anomali” rispetto alla risoluzione ordinaria cui la condizione di inadempimento dà luogo: l’automaticità dell’effetto risolutivo ex condicione, che preclude allo stesso alienante la possibilità di richiedere un’esecuzione tardiva, può farsi discendere da una preventiva valutazione del creditore circa l’inefficienza sia di un adempimento successivo alla scadenza, sia del ricorso a strumenti di attuazione coattiva del credito. E tale esito si giustifica, in quanto l’interesse primariamente protetto dallo ius variandi (la facoltà, cioè, di disporre dello stesso) non può che essere quello del creditore stesso, cui è pertanto riservata la possibilità di disporne anche anticipatamente.
Tra l’altro, sul piano sistematico la stessa logica complessiva dei rimedi sinallagmatici, tipicamente caratterizzata dal potere di scelta tra azione di adempimento e azione di risoluzione, è espressione di una valutazione normativa di “disponibilità” della forma di tutela, ad opera del contraente fedele, che sembra sufficiente a giustificare l’opzione preventiva per un rimedio (la c.d. condizione di inadempimento) restitutorio, incompatibile con la sopravvivenza della tutela satisfattiva.
Il passaggio chiave, poi, della nostra dimostrazione e il punto di maggior attrito tra condizione di inadempimento e risoluzione ordinaria, consiste senza dubbio nel giustificare l’opponibilità ex art. 1357 c.c. dell’effetto risolutivo ai terzi aventi causa; e ciò, a maggior ragione, in quanto in tale opponibilità risiede l’obiettivo specifico perseguito attraverso l’adozione del congegno in esame.
È qui che lo scostamento dalla disciplina della risoluzione per inadempimento si fa più vistoso.
La dottrina contraria all’ammissibilità della condizione di inadempimento individua il risultato perseguito dai privati attraverso il congegno condizionale nella possibilità di rendere opponibile ai terzi “l’inadempimento”; e già in ciò si annida un equivoco: opponibile ai terzi non potrà mai essere l’inadempimento in sé, quanto piuttosto la vicenda effettuale (caducazione del rapporto contrattuale) che su di esso si fonda.
La replica a siffatto modo di argomentare ha condotto ad una prima conclusione: la vera ragione dell’inopponibilità ai terzi della risoluzione, sancita dall’art. 1458 c.c., potrebbe essere data non tanto dalla natura dell’evento che giustifica la caducazione del contratto (cioè dalla circostanza che l’inadempimento è vicenda rilevante solo tra le parti del rapporto obbligatorio), quanto dal fatto che l’inefficacia, conseguente all’ordinaria risoluzione per inadempimento, va a colpire una vicenda traslativa già pienamente e definitivamente realizzatasi in favore dell’acquirente: in forza della quale, pertanto, anche il subingresso del terzo nella situazione giuridica (ri)trasferita si è potuto produrre medio tempore, in forma piena e definitiva.
Per ciò stesso, è ragionevole ipotizzare un diverso trattamento dei casi nei quali la caducazione degli effetti incida su una “vicenda non esauritasi”, la quale cioè, sul piano del trasferimento del diritto, non possa ritenersi pienamente e definitivamente attuata.
L’autentico mutamento di prospettiva consiste nel cogliere la peculiare dinamica degli effetti discendenti dal negozio risolutivamente condizionato e, in particolare, l’intrinseca precarietà che caratterizza fisiologicamente, anche nel caso della condizione risolutiva, la fase di pendenza. Tale precarietà si giustifica, sul piano sostanziale, in ragione della non definitività degli interessi regolati e dunque, data la situazione, appare necessario che l’ordinamento assicuri uno schema normativo idoneo a salvaguardare la realizzabilità dell’esito incerto.
Se si ritiene di accogliere tale ricostruzione, è chiaro che, come l’atto traslativo sub condicione risolutiva non produce il trasferimento in forma piena e definitiva, così l’avverarsi della condizione non dà luogo ad un’ipotesi di caducazione “successiva” di effetti già pienamente realizzatisi.
L’opponibilità erga omnes dell’avveramento condizionale si fonda, allora, non sulla retroattività, né su una presunta ultrattività del contratto, quanto sulla logica tipica immanente agli acquisti a titolo derivativo: il limite dell’inefficienza traslativa del primo negozio, indotto dalla condizione, si impone necessariamente a tutti i successivi aventi causa.
In tal modo si restituisce razionalità alle divergenti indicazioni degli art. 1357 e 1458 c.c.: come la precarietà degli effetti del negozio condizionato spiega l’opponibilità disposta dalla prima norma, così la definitività degli effetti traslativi incondizionati giustifica l’insensibilità delle successive vicende alla sopravvenuta caducazione della prima (art. 1458 cpv.).
Questa diversità sostanziale tra risoluzione ordinaria e risoluzione condizionale è sufficiente a riconoscere alla seconda l’attitudine a raggiungere quel risultato che alla prima è precluso. E ciò mediante l’adozione di una diversa disciplina del trasferimento, per cui opponibile al terzo non sarà il venir meno degli effetti traslativi, quanto piuttosto il loro originario non prodursi (o quanto meno non prodursi in modo pieno).
Risolta, dunque, anche quest’ultima obiezione, si è concluso nel senso della compatibilità della condizione di inadempimento/adempimento col nostro ordinamento. Il congegno negoziale, nella formulazione qui trattata, rappresenta un’espressione dell’autonomia contrattuale attraverso cui i privati possono realizzare interessi pienamente meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
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