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dott.ssa Elisabetta Falco
"Atti di destinazione e meritevolezza degli interessi"


Relatore: Ch.mo Prof. Carmine Donisi

Lo studio si propone l’obiettivo di analizzare il complesso istituto dei cc.dd. “atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela”, introdotto all’art. 2645-ter c.c. dall’art. 39-novies del d.l. 30 dicembre 2005 n. 273 (c.d. decreto mille proroghe), convertito nella legge 23 febbraio 2006 n. 51. Il nuovo art. 2645-ter c.c. riveste una triplice rilevanza, innannzi tutto, perché pone la necessità di un ripensamento di fondamentali categorie giuridiche (il numerus clausus dei diritti reali, la causa del contratto, i vincoli di destinazione, le proprietà, gli oneri reali, l’efficacia della trascrizione), in secondo luogo, perché rende inevitabile il confronto con istituti diversi (come il trust, il mandato, il negozio fiduciario) e, infine, perché investe il notaio del compito molto delicato di valutare, caso per caso, la sussistenza del discusso requisito della meritevolezza degli interessi perseguiti.
Per tali ragioni, il lavoro si articola in cinque capitoli, nei quali vengono affrontate le più rilevanti questioni giuridiche poste dalla novella legislativa.
In primo luogo, assume rilevanza fondamentale il profilo della causa del negozio di destinazione e il dibattito sulla sua funzione economico-sociale approda alla conclusione che tale negozio può assumere una veste sia “dinamica” sia “statica”, a seconda che, accanto alla creazione del vincolo di destinazione, vi sia anche la produzione dell’effetto traslativo. In effetti, il negozio di destinazione nella versione “dinamica” produce un effetto traslativo, ma si tratta non di una titolarità piena, bensì funzionale alla realizzazione dello scopo prefissato. Pertanto, non è assolutamente infondato il dubbio circa lo stravolgimento del principio del numerus clausus dei diritti reali. La dottrina, in effetti, ritiene che l’effetto di destinazione sia in linea con il principio de quo, in quanto la valutazione circa la possibilità di creare vincoli di destinazione (a)tipici viene svolta, a monte, in senso positivo dal legislatore. In tal modo, il titolare del patrimonio destinato acquista una situazione giuridica che è, in ogni caso, riconducibile ad un modello proprietario.
Ciò induce naturalmente a propendere per l’orientamento secondo cui il vincolo di destinazione ha natura reale, in quanto esso è inerente alla res, incide sul diritto di proprietà, modificandone e “specializzandone” il contenuto e la trascrizione del vincolo di destinazione, pertanto, ha la funzione di rendere opponibile il vincolo erga omnes.
L’idoneità dell’atto di destinazione a produrre l’effetto traslativo pone la questione della possibilità o meno di configurare il negozio di destinazione a struttura unilaterale e, quindi, ancora una volta, pone l’interrogativo circa l’idoneità del negozio unilaterale a produrre effetti reali. Ci si rende conto che la soluzione negativa affonda le sue radici più su “retaggi concettuali” che sulla effettiva analisi del fenomeno della destinazione. Se il negozio di destinazione ha natura reale, sembra del tutto irrilevante il principio della tassatività delle promesse unilaterali, in quanto non si è in presenza di una vicenda obbligatoria. Inoltre, la produzione degli effetti traslativi mediante un atto unilaterale non altera il principio del numerus clausus in quanto l’atipicità del negozio giuridico e, quindi, l’utilizzo di strutture diverse non incide sulla tipicità dei diritti reali.
È innegabile che tutti i dubbi della dottrina circa la struttura del negozio di destinazione, nonché sulla causa del medesimo non sono del tutto ingiustificati, in quanto essi si basano sul mero rinvio operato dall’art. 2645-ter c.c. all’art. 1322, 2° co, c.c.. Probabilmente si può discutere – e giustamente – sulla capacità tipizzante del citato art. 1322, come ritiene anche la scarsa giurisprudenza prodottasi sull’argomento. Tuttavia, sembra possibile affermare che il legislatore abbia tipizzato il modello, lo schema del negozio di destinazione, ma non il contenuto. E questo già costituisce un’impronta molto forte che il legislatore ha inteso dare al nuovo istituto in esame e ciò si rende ancora più evidente se si pensa che il rinvio all’art. 1322, 2° co, c.c. amplia notevolmente la riserva legale di cui all’art. 2740, 2° co, c.c..
La nuova norma, infatti, introducendo un sistema aperto di vincoli di destinazione, pone il problema dell’(in)esistenza del principio della responsabilità patrimoniale e, quindi, l’esigenza di reinterpretarlo nel senso dell’esigenza della tutela del ceto creditorio. Ad una più attenta analisi della questione, ci si rende conto che l’equilibrio tra l’autonomia dei privati e la tutela del credito non si basa tanto sulla imposizione del divieto o di restrizioni alle limitazioni della responsabilità patrimoniale, quanto piuttosto sulla previsione dell’obbligo di informare i terzi sull’esistenza di situazioni giuridiche (i vincoli di destinazione) che possano pregiudicare la loro posizione. In altri termini, il legislatore consente che, di volta in volta, i privati selezionino l’interesse meritevole, attraverso un “istituto di destinazione omnibus”, capace di provocare la separazione dei beni e di sottrarli all’azione esecutiva dei creditori non titolati dallo scopo di destinazione. Pertanto, riprendendo la nozione di negozio di destinazione tipico quanto allo schema (e atipico quanto al contenuto), la riserva legale dell’art. 2740, 2° co, c.c. non subisce alcuna violazione.
Diventa logica conseguenza di quanto testé evidenziato che la tenuta del sistema e la sopravvivenza di granitici principi dell’ordinamento giuridico dipendono dai confini che vengono dati all’evanescente concetto della “meritevolezza degli interessi”. In buona sostanza, tutto dipende da “come” viene interpretata tale clausola generale. È evidente la delicatezza del ruolo del notaio che, ai sensi dell’art. 28 legge notarile, non può ricevere atti nulli. Innanzi tutto, ci si rende conto che sembra trovare sempre più giustificazione quella interpretazione della “causa” non più come funzione economico-sociale, bensì come sintesi degli effetti concretamente voluti dalle parti (la c.d. causa in concreto). In secondo luogo, ci si accorge che appare più prudente ridurre il controllo di meritevolezza a quello di liceità (art. 1343 c.c.), in quanto non sono previsti dei criteri di riferimento idonei a riempire la clausola in oggetto. Inoltre, anche la giurisprudenza, a parte qualche sparuta pronuncia, ha sempre interpretato restrittivamente la meritevolezza nel senso della liceità. In effetti, questa lettura restrittiva si basa su una ampia interpretazione del concetto di “ordine pubblico”, che viene inteso come una “valvola di passaggio” dei valori contenuti nel sistema (nei quali non sono compresi solo i principi costituzionali) nell’ambito del singolo contratto. È in questo senso che il ruolo del notaio deve rivestire quel carattere di dinamicità all’interno dell’ordinamento giuridico che gli consenta di rendersi disponibile a soddisfare le esigenze della collettività e svolgere a pieno la funzione antiprocessualistica che gli è propria.
Chiudono lo studio il confronto del negozio di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. con il trust e l’analisi della disciplina fiscale di entrambi gli istituti, allo scopo di evidenziarne le differenze e i margini di competitività dell’istituto recentemente introdotto. Mettendo in rilievo i tratti salienti del trust (come la particolare natura della Equitable Property del beneficiary, la mancanza della pubblicità del trust, il riconoscimento di una tutela reale di tipo reipersecutorio in capo al beneficiario, l’assenza di un rapporto obbligatorio fra settlor e trustee), si evidenzia che l’art. 2645-ter c.c. non costituisce “la legge italiana sul trust”, in quanto non disciplina affatto quest’ultimo istituto. L’art. 2645-ter c.c., infatti, tralascia la regolamentazione dei rapporti tra il soggetto cui il bene vincolato viene (eventualmente) trasferito ed il beneficiario, dei poteri di cui dispone il beneficiario, della sorte dei beni destinati dopo la cessazione del vincolo, delle modalità di scioglimento dello stesso, dell’eventuale ritrasferimento dal gestore al disponente e del trasferimento dal gestore al beneficiario. Probabilmente, l’art. 2645-ter c.c., più che introdurre una disciplina sul trust, ha inteso consentirne la trascrizione in Italia. Più precisamente, il legislatore, introducendo la trascrizione di un negozio che ha la propria causa nella segregazione dei beni per destinarli alla realizzazione di interessi meritevoli, ha reso compatibile il negozio di destinazione al trust, che si riduce anch’esso nell’attribuzione di un diritto funzionalizzato al perseguimento dello scopo espressamente disposto dal disponente. In questo modo, sembra possibile affermare che debba ormai ritenersi risolto il contrasto dottrinale (la giurisprudenza, con orientamento costante, aveva ammesso la trascrivibilità del trust) relativo all’ammissibilità della trascrizione del trust, in quanto, essendo esso inquadrabile nella categoria giuridica degli atti di destinazione, può ben adeguarsi alle esigenze di pubblicità dell’ordinamento italiano ed essere trascritto. Aderendo, infatti, alla tesi secondo cui il principio della tassatività delle trascrizioni deve essere inteso con riguardo agli “effetti” e non agli “atti”, il trust può essere trascritto ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., in quanto il vincolo di destinazione è trascrivibile e il problema fondamentale della tutela dei terzi viene risolto in senso positivo.
Naturalmente, non vi può essere una piena sovrapposizione tra i due istituti in quanto il negozio di destinazione si caratterizza per la mera eventualità del profilo traslativo, l’assenza della “ritrasferibilità” del diritto dominicale, i requisiti formali, la previsione di un unico limite di durata, la necessaria presenza di beneficiari.
Ma allora, se gli effetti, in buona sostanza, sono simili, cosa può determinare i privati a ricorrere all’istituto del negozio di destinazione? Nella pratica, il nuovo istituto non ha trovato molta applicazione, e ciò induce a chiedersi il perché. Probabilmente, bisogna arrivare ad una triste conclusione e cioè che il ricorso ad uno strumento giuridico piuttosto che ad un altro, mettendo da parte l’entusiasmo e il fascino che si provano quando si analizzano questi istituti, dipende soprattutto dalla sua convenienza fiscale. Ebbene, la previsione di una doppia tassazione (per la costituzione del vincolo e per il trasferimento del diritto di proprietà) non incentiva, di fatto, il ricorso a questo istituto che ben potrebbe trovare applicazione in quelle “zone di confine” in cui molti istituti previsti dal codice civile non possono essere utilizzati. Si pensi all’inapplicabilità della disciplina del fondo patrimoniale o dell’impresa familiare, nonché alle convivenze more uxorio. Per tali ragioni, si auspica un ritorno del legislatore su questa fattispecie, volto a disciplinare meglio il contenuto dell’atto di destinazione e i profili dello scioglimento del vincolo, dell’eventuale ritrasferimento, della sorte dei beni, della possibilità di conservare il vincolo sui beni ricavati dalla vendita di quelli vincolati.
Il lavoro è stato condotto sulla scorta di ampia bibliografia ed è stato ulteriormente sviluppato in tre articoli: “Brevi riflessioni su alcuni aspetti degli atti di destinazione patrimoniale ex art. 2645-ter c.c.”, in Strumentario Avvocati, 2008, n. 6, p. 116; “L’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. e l’interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, in Strumentario Avvocati, 2008, nn. 7 e 8, p. 188; “La disciplina fiscale degli atti di destinazione patrimoniale”, in Strumenatrio Avvocati, 2008, n. 9, p. 86.

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